Uomo/donna, archetipo di tutte le disparità

Lea Melandri

 

In una delle trasmissioni che Rossana Rossanda tenne a Radiotre alla fine degli anni ’70  -Noi, voi, loro-donna-, alla domanda su quale rapporto ci fosse tra l’ “egualitarismo” delle lotte studentesche e operaie e la richiesta di uguaglianza da parte delle donne, alcune delegate sindacali e impiegate milanesi così rispondevano:
“Mah, padrone e operaio, sì, è una disuguaglianza. Però per me la più grossa è tra uomini e donne. La vedo in tutti gli aspetti. Non solo nella società e nel lavoro. C’è proprio un fatto culturale (…) fin dal modo di educarti diversamente da bambina e poi da grande nell’assegnarti una certa parte, per cui si arriva a ridurre tutte le capacità di una donna”. “Se poi questo discorso sulla diversità lo fai nella sfera affettiva e sessuale, urta con una tale disuguaglianza di idee sull’uso del sesso, sull’uso del corpo, così enorme che ti castra. Vorresti essere te, vorresti esprimerti anche sessualmente e non lo fai, per la cultura che ha ricevuto lui, per quella che hai ricevuto tu. Anche il maschio è bloccato da questa educazione. Specie nell’affettività.” (R.Rossanda, La altre, Feltrinelli 1989)

Se per tutti la parola uguaglianza nasconde l’inganno di avere solo un valore formale, per le donne  -conclude Rossanda- porta il segno di una “cultura antica, introiettata”. E’ da lì che nascono la loro oppressione, “prima che nelle leggi e più forte della legge”, e il fatto di sentirsi più degli uomini escluse dalla sfera della politica, ancorate a una “realtà inespressa e più profonda, non sempre più progressiva”. “Reazionarie o rivoltose. Raramente sono democratiche”.

A dire la verità, la cultura che le donne hanno fatta propria e che le ha negate come esseri sociali, pur avendo radici lontane nel tempo, ha continuato a parlare per bocca di filosofi, artisti, scienziati, religiosi, politici, fino alla soglia del ‘900. In un ultimo disperato tentativo di salvare l’unità della ragione classica, platonica e cristiana, dall’insorgere di minacciose “differenze”  -di classe, di sesso, di “razza”-, Otto Weininger così scriveva: “Si può ben pretendere l’equiparazione giuridica dell’uomo e della donna senza perciò credere nella loro eguaglianza morale e intellettuale. Semmai si può rifiutare tutta la barbarie del sesso maschile contro quello femminile senza contraddizione  e senza contemporaneamente disconoscere la loro contrapposizione cosmica immensa e senza negare la differenza delle loro nature”.

Priva di un Io intellegibile e morale, e quindi “pura materia”, la donna non poteva che prendere forma dall’artefice unico della storia: il sesso maschile. Di qui la sua adattabilità, la sua “straordinaria influenzabilità” di fronte a giudizi altrui, la sua “suggestionabilità”, la sua “totale trasformazione da parte dell’uomo”.
Essendo mancato loro il riconoscimento come individui, condizione preliminare per potersi attribuire diritti e poteri, è chiaro che “essere uguali” per le donne non poteva che significare uniformarsi al modello vincente: dal comprarsi una moto  -come dice una delle operaie intervistate da Rossanda- all’ “imparare a usare i loro metodi” e “fare la voce grossa come i compagni di fabbrica”. Nella logica dell’adattabilità e dell’integrazione dentro un ordine precostituito dal potere maschile dominante, sia pure nascosto dietro la maschera del neutro, si è venuto a collocare da un secolo a questa parte il dilemma “uguaglianza/differenza”, proprio dell’emancipazionismo in ogni sua forma. L’incongruenza che è nella pretesa di tenere insieme due principi apparentemente inconciliabili  -affermazione dell’uguaglianza tra donne e uomini di fronte allo Stato sulla base di diritti “neutri” e, per un altro verso, la rivendicazione del femminile come differenza irriducibile, da tutelare e valorizzare- è stata sottolineata con particolare durezza dal femminismo degli anni ’70.

“Per uguaglianza della donna si intende il suo diritto a partecipare alla gestione del potere nella società mediante il riconoscimento che essa possiede capacità uguali a quelle dell’uomo. Ma il chiarimento che l’esperienza femminile più genuina di questi anni ha portato sta in un processo di svalutazione globale del mondo maschile. Il porsi della donna non implica una partecipazione al potere maschile, ma una messa in questione del concetto di potere. L’uguaglianza è quanto si offre ai colonizzati sul piano delle leggi e dei diritti. E’ quanto si impone loro sul piano della cultura. Il mondo dell’uguaglianza è il mondo della sopraffazione legalizzata, dell’unidimensionale. L’uguaglianza tra i sessi è la veste in cui si maschera oggi l’inferiorità della donna.” (Manifesto di Rivolta femminile, 1970)

A partire dai due “Manifesti” del gruppo milanese Demau e di Rivolta femminile, che hanno inaugurato, tra gli anni ’60- 70, un movimento di donne inedito per la radicalità delle sue intuizioni e delle sue pratiche, il conflitto tra emancipazione e liberazione finirà per occupare nel dibattito femminista una rilevanza tale da far passare in ombra la ricerca di “nessi” tra le forme di potere che si sono intrecciare nel corso della storia. La domanda intorno alla quale si erano cimentate le pratiche non autoritarie nella scuola  -“E’ utopico pensare di istituire relazioni di uguaglianza tra non uguali?”-  era chiaro che avrebbe dovuto essere articolata diversamente nel caso di una disuguaglianza che ha costruito gerarchie, dipendenze, espropriazioni che passano attraverso i corpi, lo psichismo profondo, l’immaginario sessuale e tutto ciò che le istituzioni pubbliche hanno “naturalizzato”.

Se la gerarchia dei poteri da spezzare riguarda la proprietà, i ruoli, i rapporti di sottomissione, non ci si può nascondere che la parola più “eversiva” viene ancora oggi da chi ha portato alla coscienza l’impianto originario della “patologia possessiva” che sta alla base di ogni dominio: la divisione tra soggetto e oggetto, la riduzione della donna a corpo, cosa, materia, merce. La partecipazione egualitaria all’esercizio del potere presuppone, come ha scritto Carla Lonzi, che si possa “ricominciare il corso del mondo avendo la donna come soggetto”.
 (I movimenti femministi in Italia, a cura di Rosalba Spagnoletti, Savelli 1977)

pubblicato anche in Gli altri, Queer del 29 marzo 2013

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